Disturbi specifici dell’apprendimento: le diagnosi sono sempre giuste e fondate?

In un recente libro, il pedagogista Daniele Novara solleva dubbi sulla fondatezza delle diagnosi e sul boom di certificazioni, non in linea con le statistiche internazionali. Soprattutto, punta il dito contro il sistema scolastico, responsabile a suo dire di instillare nei genitori il dubbio dell’inadeguatezza dei figli di fronte al sistema educativo. Abbiamo ascoltato il suo punto di vista.

Negli ultimi anni in Italia si è assistito a un discutibile boom di diagnosi e relative certificazioni: dai disturbi dell’attenzione a quelli dell’apprendimento, dalla dislessia alla discalculia. Bambini che in passato sarebbero stati definiti come vivaci o indisciplinati oggi hanno diagnosi precise, con certificazioni rilasciate da neuropsichiatri. Eppure, la neuropsichiatria infantile è una branca specialistica della medicina che si occupa dello sviluppo neuropsichico e dei suoi disturbi, neurologici e psichici, nell’età fra zero e diciotto anni. Possibile che così tanti bambini abbiano sviluppato questi disturbi?
Nel suo ultimo libro, “Non è colpa dei bambini. Perché la scuola sta rinunciando a educare i nostri figli e come dobbiamo rimediare”, il pedagogista Daniele Novara evidenzia che l’accelerazione con cui le diagnosi stanno crescendo nelle scuole italiane non è in linea con le statistiche internazionali.

Il pedagogista sostiene che stiamo sostituendo la psichiatria all’educazione e che in questi ultimi anni è diventato “perversamente più facile definire ‘malato’ un bambino che impegnarsi a educarlo in maniera corretta. “Confondere un bambino molto vivace con un bambino affetto da Disturbo della condotta o da ADHD (Disturbo da deficit di attenzione e iperattività) è un grave errore – scrive Novara nel suo libro – È fondamentale fare chiarezza sulla sostanziale differenza tra le difficoltà che un bambino o un ragazzo può incontrare a causa dell’immaturità del suo sviluppo e una patologia vera e propria. La mia impressione è che nel dubbio si scelga la via della certificazione, quasi per non correre rischi, quasi per non lasciare i genitori senza “una risposta”.
Ma perché siamo arrivati a preferire la terapia ai metodi educativi? Come si spiega questa “deriva”? Daniele Novara sottolinea la necessità di una scuola diversa, di un restyling educativo per i genitori, del rispetto delle diverse tempistiche di apprendimento dei ragazzi e soprattutto delle insidie che si nascondono dietro queste certificazioni ed etichette, principalmente per quanto riguarda l’autostima di bambini e ragazzi. Novara dà inoltre alcuni consigli a genitori e insegnanti, invitando a resistere prima di ricorrere alle diagnosi: “La terapia va lasciata ai casi specifici e particolari, l’educazione è la prima vera cura”.

Quali sono le conseguenze di una certificazione del disturbo su autostima e sicurezza dei bambini?
“Si tratta di una mortificazione – risponde Novara. “Il bambino che riceve una diagnosi di disabilità o di disturbo dell’apprendimento non si sentirà per questo più aiutato e tranquillo. Questo è un grandissimo equivoco. Si sentirà al contrario escluso ed etichettato: il rischio è quello di disattivare le sue risorse. I bambini di risorse ne hanno tante, il loro cervello è plastico, la loro capacità di compensare le carenze è enorme. Le mosse giuste, a mio parere, sono di carattere educativo. Se un bambino di 3 anni non dorme più di 8 ore a notte e non fa dei riposini durante il giorno, ad esempio, avrà dei problemi. Pensare che ogni bambino dorma in maniera soggettiva e discrezionale è una cosa sbagliatissima: deve dormire almeno 11-12 ore, i pisolini ci vogliono. Facciamo un altro esempio: un bambino di 5 anni non può sostituire il papà o la mamma del genitore separato dormendo nel lettone, perché svilupperà un blocco emotivo. Altro esempio: non possiamo lasciare i bambini tutto il pomeriggio davanti ai tablet, oltre alla questione degli schermi che li ipnotizzano, è evidente che i bambini sedentari rischiano di ammalarsi. Fino a non troppo tempo fa, quando un ragazzino aveva dei problemi veniva inviato a uno sportello di ascolto, non da un neuropsichiatra. Vuole sapere cosa è successo oggi? Non ci sono più i soldi per gli sportelli di ascolto, però ce ne sono tantissimi per le diagnosi neuropsichiatriche, e quando le famiglie non possono permetterselo ci pensa lo Stato. Non è meglio aiutare questi ragazzi in altri modi?”

Ad esempio?
“Neuropsichiatria è un termine molto preciso: si sta andando a cercare cosa non funziona nel cervello di un bambino, si stanno andando a cercare disturbi gravi. Magari è il caso di indagare nell’educazione, dare informazioni ai genitori, magari appena escono dai reparti di maternità, invece di dare solo ciucci e pomate. I genitori devono prendere in continuazione decisioni educative: andrebbero preparati. La confusione sta rovinando l’educazione dei nostri figli, e la situazione viene risolta stabilendo che sono malati. ‘Signora lo faccia vedere perché noi non lo gestiamo più’, è quello che i genitori si sentono spesso ripetere dagli insegnanti”.
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E questo da cosa dipende, secondo lei?
“Molti insegnanti pretendono di avere in classe dei bambini ‘sedati’, che parlino come adulti, che non abbiano più uno straccio di pensiero magico, che non siano più vivaci, disordinati. ‘Signora lo faccia vedere perché dopo 30 minuti non sta più attento a scuola’, viene detto alle mamme, ma nessun bambino sta attento passati i 30 minuti. Mi chiedo se queste maestre/i e professoresse/professori abbiano nozioni di psicologia e pedagogia. Per quanto mi riguarda è spesso la loro incompetenza in questo ambito a portare alla necessità di diagnosticare”.

La paura di un’etichetta è una paura irrazionale?
“Assolutamente no, e in generale i bambini interiorizzano la diagnosi. L’intervento di rafforzamento pedagogico dei genitori e della famiglia risulterebbe senz’altro più efficace rispetto al porre una sorta di marchio sui bambini che, proprio a fronte di questo, vengono considerati ‘diversi’ dai genitori stessi, contribuendo a giustificare una sorta di sottrazione di responsabilità genitoriale e scolastica. L’affidabilità di molti di questi sistemi diagnostici inoltre non può essere data tout-court per scontata: hanno una storia piuttosto recente e forse richiederebbero di essere applicati con una maggiore prudenza invece che con la certezza assoluta con cui sono utilizzati. Il rischio è che si creino situazioni per cui l’alunno, invece di attingere a tutte le sue potenzialità, si accasci letteralmente sul farsi aiutare, nella logica di attendersi una sorta di sostituzione”.

È dunque questo il rischio che si corre nel non rispettare i tempi di bambini e ragazzi?
“Il rischio è proprio di creare, nella logica dell’etichetta, una sorta di identità deficitaria, destabilizzata, per cui l’alunno finisce con l’identificarsi non tanto con le sue risorse quanto con la loro mancanza, riconoscendosi in uno status precario: ‘Io sono disprassico, non posso farlo’; ‘Mi devi leggere tu perché io sono dislessico’; ‘Loro sono discalculici, hanno la verifica più facile’, etc. Quando non vengono rispettati i ritmi dei bambini e dei ragazzi il rischio che si creino blocchi emotivi è molto forte. Alla fine resta solo lo stress e nessun risultato positivo. Affrontare la loro crescita senza pensare che sia una gara contro il tempo resta l’atteggiamento più efficace”.

La sua proposta è lavorare sui genitori, perché?
“Ai genitori che incontro in studio anticipo subito che lavoreremo sulle loro difficoltà, non su quelle dei loro figli. Se è vero che l’educazione è il problema, è vero anche che i genitori sono la più grande risorsa. Gli errori educativi possono essere corretti, e i figli possono farcela se messi nelle condizioni giuste perché emergano tutte le loro potenzialità”.
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Nel suo libro parla di un “restyling educativo”, ci aiuti a capire il suo punto di vista.
“I genitori di oggi spesso provocano molta confusione in bambini e ragazzi. Dove prima c’era una posizione di reciproco rinforzo adulto, adesso troviamo spesso adulti che si smentiscono, si delegittimano, assumono posizioni contrastanti e coinvolgono bambini e ragazzi nelle decisioni che riguarderebbero palesemente solo loro. Ci sarebbe bisogno di una legge nazionale di sostegno alla genitorialità, di progetti a supporto dei genitori. Invece di eccedere con le diagnosi, medicalizzazioni e certificazioni della più svariata natura, preveniamo l’orfanità educativa e attiviamo le potenzialità di una risorsa indispensabile: le madri e i padri”.

Nel libro sottolinea spesso che genitori e insegnanti sembrano arrendersi di fronte alle difficoltà dell’infanzia e dell’adolescenza.
“La scorciatoia imboccata, la più semplice e immediata, consiste nel consegnare figli e alunni nelle mani di medici, psichiatri, neuropsichiatri, psicologi, pediatri, logopedisti, etc., ossia di un settore che non ha subìto alcuna crisi e appare in grado di affrontare i problemi emergenti. Ma i bambini non hanno colpe, avrebbero diritto a qualcosa di più costruttivo, a un progetto di qualità migliore, invece di una scuola che getta subito la spugna e chiama i pompieri di fronte al primo fiammifero acceso”.

Qual è la più grande risorsa che bambini e ragazzi hanno a disposizione?
“Senza dubbio i genitori: la vera strategia vincente consiste nel sostenere il loro ruolo educativo. I genitori vanno aiutati a ristrutturare condizioni educative adeguate, come la giusta distanza, il gioco di squadra, la coesione, il sostegno alle autonomie, perché i bambini stanno bene quando i genitori sono educativi, e gli alunni riconoscono il valore di insegnanti che stimolano e attivano le competenze piuttosto che quelli che tengono lezioni cattedratiche come se fossimo nell’Ottocento”.

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